Esami di prevenzione

Quali sono gli esami di prevenzione?


La letteratura scientifica internazionale è unanime sulle evidenze che la Lipidomica di membrana cellulare è l'esame di riferimento per la misurazione dell'infiammazione cellulare metabolica, il d-ROMs per la misurazione dello stress ossidativo cellulare, la ricerca delle Small-Dence LDL per il rischio di formazione della placca aterogena, l'Homa Index per la misurazione dell'insulino resistenza alla base di tutte le patologie metaboliche. Questi esami, insieme ad altri, fanno parte del pacchetto che proponiamo al fine di delineare il tuo rischio cardio-metabolico. Questi esami rappresentano il punto di partenza per intraprendere il percorso della prevenzione e della longevità. Se vuoi approfondire ti consiglio di continuare a leggere per conoscere meglio questi esami, come viene costruito il rischio cardio-metabolico con i relativi riferimenti scientifici. Se vuoi avere informazioni su come e dove eseguire i prelievi per gli esami clicca il pulsante rosso PRENOTA ESAMI nella pagina iniziale del sito.

 

Profili di rischio cardio metabolici: una mappatura completa del nostro benessere

 

La medicina attuale, basata sull’evidenza e sui dati clinici, si occupa di diagnosticare malattie e trattare pazienti con terapie e farmaci sviluppati sulla base di trial classici, che utilizzano campioni statisticamente significativi ma comunque dalla numerosità limitata. La medicina del futuro – e in parte del presente – potrebbe stravolgere completamente questo paradigma: non più cura, ma prevenzione, non più pazienti ma soggetti sani dei quali si valuta il rischio che possano incorrere in una malattia sulla base dei loro geni e delle interazioni con l’ambiente e stile di vita (epigenetica).

L’idea è quella di creare modelli predittivi sempre più precisi.

Su queste basi insieme al biochimico Spina Michele, dopo anni di collaborazione in cui gli aspetti laboratoristici venivano interpretati e condivisi sulle evidenze cliniche ed anamnestiche del paziente mettendo a disposizione le rispettive competenze, abbiamo ideato un profilo di rischio cardio-metabolico che tenga in considerazione tutti quei parametri critici che abbiamo fin qui menzionato e che sono condivisi ed accettati dall’intera comunità scientifica.

Nella costruzione di un modello di calcolo predittivo di rischio Cardio Metabolico (CM), si è pensato quindi di distinguere cinque profili di rischio, che in maniera sinergica possono avviare dei processi aterogeni e degenerativi.

In ognuno dei profili di rischio sono stati considerati sia i markers canonici che ad oggi sono utilizzati con le analisi di routine, sia parametri integrativi proposti per una predittività maggiore, che richiedono analisi più specifiche.

1. Profilo Lipidico aterogeno

Markers proposti:

⮚ ApoB (Apo-lipoproteinaB)

⮚ sd-LDL (o LDL-ossidate in base al paziente)

⮚ Lipoproteina a

2. Profilo di infiammazione cellulare (inflammaging)

Markers proposti:

⮚ Rapporto AA/EPA e Omega_3 Index dalla Lipidomica Eritrocitaria

⮚ Acido Urico

⮚ Omocisteina

3. Profilo ossidativo

Marker proposto:

⮚ d-ROMs (perossidazione lipidica)

4. Profilo di insulino-resistenza

Markers proposti:

⮚ Rapporto Trigliceridi/HDL

⮚ Homa Index

5. Disbiosi Intestinale

Marker proposto:

⮚ Disbiosi Test (Markers urinari di disbiosi)

 

Alcune considerazioni di carattere generale

 

L'aterosclerosi (più spesso conosciuta nel mondo laico come arteriosclerosi) è una condizione patologica caratterizzata da alterazioni della parete delle arterie, che perdono la propria elasticità a causa dell'accumulo di calcio, materiale lipidico, cellule infiammatorie e materiale fibrotico. Ad oggi la definizione attuale dell’aterosclerosi è: malattia infiammatoria cronica della parete arteriosa. L’infiammazione sembra essere un fattore chiave sia nello sviluppo che nella progressione della placca aterosclerotica. L’alterazione funzionale dell’endotelio si manifesta con l’espressione di molecole di adesione sulla membrana cellulare che sono responsabili dell’infiltrazione dei leucociti, della permeabilità alle lipoproteine plasmatiche e al controllo del tono vasale. Nel mondo scientifico è unanime l’accordo riguardante i due processi iniziali all’origine di patologie degenerative e cardiovascolari: l’infiammazione e l’ossidazione. Anche se il più delle volte si tende a confonderle, sono due processi che hanno genesi completamente diverse. Cercherò di spiegare come misurare l’una e l’altra e vedremo come diverse volte per cercare di spegnere l’infiammazione si produce un aumento dell’ossidazione, provocando danni che potrebbero essere maggiori rispetto allo stato iniziale del paziente. Ci sono diversi modelli che oggi sono utilizzati per comprendere i processi aterosclerotici: in questo capitolo parleremo dell’ipotesi delle modificazioni ossidative a danno delle lipoproteine LDL. 

Nella figura sottostante viene schematizzata la formazione delle cellule schiumose (Foam cells) nelle lesioni aterosclerotiche. La Lipoproteina LDL nativa penetra all'interno della tonaca intima arteriosa e qui viene ossidata da molecole chimiche altamente reattive (stress ossidativo) per formare le LDL-ossidate (OxLDL). Queste ultime quindi sono Lipoproteine ossidate, cioè modificate in alcune parti della loro struttura chimica e per questo motivo acquisiscono proprietà chimico-fisiche differenti dalle native. Sono cosi in grado di legarsi più facilmente ai recettori di cattura dei macrofagi generando delle cellule schiumose ad alto contenuto lipidico che caratterizzeranno la placca aterosclerotica. Le OxLDL hanno un’affinità inferiore rispetto ai recettori delle LDL (da qui una emivita molto più prolungata in circolo ed una clearance epatica rallentata) ed un’affinità molto più alta rispetto ai recettori di cattura dei macrofagi: hanno quindi una aterogenicità molto più elevata [2-4].

I due processi chiave di questo modello sono:

1.Ossidazione, cioè modificazione delle LDL da parte di agenti chimici altamente reattivi (stress ossidativo)

2.Infiammazione, processo biologico in cui avviene l’espressione di molecole di adesione sulla membrana cellulare e della secrezione di sostanze biologicamente attive e chemiotattiche come citochine, fattori di crescita e radicali liberi; queste sostanze favoriscono il richiamo e la successiva infiltrazione di leucociti (globuli bianchi), con trasformazione dei monociti in macrofagi.

       

L’istituto superiore della sanità ha pubblicato nel 2015, un rapporto scientifico sulle pandemie, patologie dell’ultimo millennio, che vanno da iper-tensione, sindrome metabolica legata all’obesità, aterosclerosi, infertilità, patologie neurodegenerative legate all’Alzheimer, Parkinson, demenza senile e cancro, al fine di programmare interventi di prevenzione primaria a forte impatto sui costi sanitari [5]. All’ interno di questo documento ministeriale troviamo analisi innovative come la lipidomica, che tratteremo nello specifico in questa presentazione per determinare l’infiammazione cellulare, lipoproteine a bassa densità sd-LDL (per la prima volta citate come markers cardiovascolare in un documento ministeriale), e soprattutto come la dieta e l’infiammazione siano diventate materia con cui interagire per capire l’evoluzione di patologie degenerative cardio metaboliche. Dieci anni fa queste tematiche erano assolutamente tabù per il mondo medico. Nessun specialista avrebbe solo avuto l’intenzione di parlare del ruolo chiave avuto dall’alimentazione errata nell’evoluzione di determinate patologie e soprattutto il ruolo chiave dell’alimentazione anti-infiammatoria. Se accettiamo che l’infiammazione abbia un ruolo determinante nell’invecchiamento cellulare e nell’ateriosclerosi, non possiamo non utilizzare tutti quei modelli che conosciamo per prevenire l’infiammazione e per misurarla. Credo siano concetti che non possono essere messi in discussione da nessuno.

 

[2] Hiroyuki Itabe. Oxidized low-density lipoprotein as a biomarker of in vivo oxidative stress: from atherosclerosis to periodontitis. J. Clin. Biochem. Nutr. | July 2012 | vol. 51 | no. 1 | 1–8

[3] E. Leiva, S. Wehinger, L. Guzmán and R. Orrego Role of Oxidized LDL in Atherosclerosis https://dx.doi.org/10.5772/59375

[4] Alexander N. Orekhov, Igor A. Sobenin Modified lipoproteins as biomarkers of atherosclerosis [Frontiers In Bioscience, Landmark, 23, 1422-1444, March 1, 2018]

[5] Istituto Superiore di Sanità. Pandemie del Terzo Millennio. Rapporti ISTISAN 15/36

 

Lo stato dell’arte sulla dis-lipidemia e malattia coronarica acuta

 

La domanda che dobbiamo porci è la seguente: quali sono i markers clinici che meglio possono identificare stati di infiammazione ed ossidazione? Per poter fare diagnosi, valutare stati critici, parlare di longevità con dati e numeri. Qui sono elencati alcuni markers che sicuramente conoscerete e avrete utilizzato nelle vostre analisi di routine:

  • hs-PCR
  • Acido Urico
  • Fibrinogeno
  • Emoglobina Glicata
  • Glicemia
  • Pannello lipidico: Colesterolo Totale (TC), Trigliceridi (TG), colesterolo-LDL, colesterolo-HDL

Ma sono davvero in grado di evidenziare uno stato di pericolo o di permettere una corretta prevenzione?

La misura del colesterolo LDL (LDL-C) è il caposaldo della valutazione del rischio cardiovascolare da oltre 50 anni, e viene utilizzato per la verifica dell’efficacia della terapia farmacologica statin like da quasi due decenni.

È relativamente recente – risale al 2016 – proprio una revisione di tutti gli studi sulla correlazione tra i livelli di LDL-C e la mortalità, dovuta a cause generali o collegata a malattie cardiovascolari, specificamente in campioni che rappresentano la popolazione generale di persone oltre i 60 anni (principale target terapeutico di elezione) [7].

In tutti i 19 studi di coorte selezionati e presi in esame per la revisione, il colesterolo associato a LDL-C era assunto come un fattore di rischio predittivo di mortalità (generale e/o per patologie cardiovascolari): veniva ipotizzata, cioè, una relazione lineare tra i valori di LDL-C e la mortalità. Quindi all’aumentare dei primi, ci si aspettava un aumento (statisticamente significativo) anche del numero di morti, per cause generiche o per patologie cardiovascolari.

In 16 dei 19 studi si è disegnata invece un’inaspettata correlazione inversa, per cui - al contrario – la frequenza della mortalità (sia generica, che per patologie cardiovascolari) aumentava nelle coorti con più bassi livelli di LDL-C. Le ultime revisioni scientifiche indicano in definitiva come quantità elevate di LDL-C non giustifichino da sole l'aterogenicità associata a queste particelle, ed è significativo che livelli plasmatici simili di LDL possano essere associati a gradi diversi di rischio cardiovascolare.

Direi che è arrivato il momento di valutare qualcosa in più rispetto a ciò che si valutava 50 anni fa. Non disconoscere 50 anni di studi, ma rivalutarli in senso critico con tecnologie e prospettive diverse. Valutiamo ora queste possibilità e cosa ci dice la letteratura scientifica a riguardo

 

[7] Ravnskov U, Diamond DM, Hama R, et al.: Lack of an association or an inverse association between low-density-lipoprotein cholesterol and mortality in the elderly: a systematic review BMJ Open 2016;

 

Il marker genetico di rischio cardiovascolare: la Lipoproteina(a) - Lp(a)

 

Il livello di trigliceridi nel sangue, ovvero la trigliceridemia, è considerato un marcatore di salute metabolica; assieme alla colesterolemia, costituisce il profilo lipemico o lipemia più caratterizzato come pannello di rischio cardio metabolico. Negli ultimi anni, tra i fattori di rischio cardiovascolare emergenti, sta attirando sempre di più l’attenzione la Lipoproteina(a) – Lp(a) – a cui la Società Europea di Cardiologia (Esc) ha dedicato recentemente un “focused paper” nelle sue Linee Guida 2022 [13]. Sebbene sia stata descritta per la prima volta nel 1963, solo recentemente si sono accumulate sufficienti evidenze scientifiche sulla sua relazione con l’aterosclerosi (in particolar modo coronarica) e l’ischemia. I livelli circolanti di Lp(a) sono principalmente determinati dal gene LPA, senza effetti significativi della dieta o di altri fattori ambientali [14]. Specificamente nei soggetti normolipemici che incorrono – spesso precocemente - in patologie cardiovascolari [13], si ipotizza la Lipoproteina (a) come forte fattore predisponente, per via di molteplici meccanismi patogenici in cui è coinvolta: proaterogeni, protrombotici e proinfiammatori. Non posso addentrarmi nei meccanismi molecolari del perchè la Lp(a) risulta più aterogena delle LDL, ma i dati clinici vanno verso questa direzione [14].

Tutto quello che ho inserito è quanto riportato fedelmente nel Giornale Italiano di Aterosclerosi 2017 [14]. Rimane il forte quesito del perché la Lpa non sia stata inserita come fattore di rischio predittivo. Molti penseranno che il motivo sia legato al fatto che la terapia farmacologica con statina nulla può nella modulazione della Lpa, ma solo del colesterolo-LDL. Qui mi fermo nelle considerazioni; di certo non ho trovato spiegazioni plausibili di questa mancanza di accertamenti, se non nel fatto che al momento non vi sono studi che confermino come lo stile di vita e l’alimentazione possano abbassare e modulare questo fattore critico. Però alcuni studi ci sono e andrebbero verificati [20-21]. Ma soprattutto sapere se vi è un rischio appurato, anche se di natura genetica, dovrebbe far nascere nel paziente una maggiore attenzione a stile di vita ed alimentazione. Non è questa la finalità di fare prevenzione? Alcuni autori infatti scrivono nei loro articoli come sia importante per pazienti che hanno Lpa aterogene avere ancor di più sotto controllo i fenomeni ossidativi. In parole povere: se non posso modulare le Lpa con stile di vita e alimentazione (e non tutti sono d’accordo con questo assunto) allora ho premura di avere un basso stress ossidativo per prevenire l’ossidazione delle Lpa.

Riporto testualmente, e qui termino, il documento già citato del 2017 [14]: Tuttavia, è auspicabile promuovere la valutazione dei livelli di Lp(a) non solo nei pazienti che hanno già avuto una diagnosi di malattia cardiovascolare, ma anche in programmi di screening di popolazione. Riconoscere pazienti con iperLp(a) ancora esenti da complicanze cardiovascolari, consente di intervenire sullo stile di vita e di intensificare il trattamento di altri fattori di rischio. Dal 2017 andiamo al 2023 [22], gli autori di un importante report scientifico sulla nota rivista Atherosclerosis riportano testualmente: “Why should I measure Lp(a) if I can't lower it?". Perché si dovrebbe misurare la Lpa se non posso agire su di essa? Le risposte degli autori sono esaustive e alla domanda “se è utile introdurre il valore della Lpa come fattore di rischio cardiovascolare” gli autori rispondono in questo modo: l’approccio è quello di includere la Lp(a) nel panel test lipidico del paziente, come raccomandato nella dichiarazione di consenso Lp(a) del 2022 [13], nonché le linee guida della EAS/Società Europea di Cardiologia per la gestione della dislipidemia [23] e le linee guida della Canadian Cardiovascolare Society [24]. Gli autori sono netti: non ci sono ad oggi motivi che giustifichino il non inserimento del test nella pratica clinica [22].

Nel panel test utilizzato nel referto di rischio cardio-vascolare la Lipoproteina a è all’interno del fattore critico per la valutazione di dis-lipidemie aterogene.

 

[13] Florian K. et al. Lipoprotein(a) in atherosclerotic cardiovascular disease and aortic stenosis: a European Atherosclerosis Society consensus statement. European Heart Journal (2022) 43, 3925–3946

[14] Lipoproteina(a) e aterosclerosi: è tempo di trattare! Lipoprotein(a) and Atherosclerosis: it is high time to treat! Giornale Italiano dell’Arteriosclerosi 2017; 8 (3): 50-61.

[20] Heitor OS. Lipoprotein(a): Current Evidence for a Physiologic Role and the Effects of Nutraceutical Strategies. Clinical Therapeutics/Volume 41, Number 9, 2019

[21] Wood RJ. Effects of a carbohydrate-restricted diet on emerging plasma markers for cardiovascular disease. Nutrition & Metabolism 2006, 3:19.

[22] Florian Kronenberg. Frequent questions and responses on the 2022 lipoprotein(a) consensus statement of the European Atherosclerosis Society. Atherosclerosis 374 (2023) 107–120

[23] F. Mach, C. Baigent, A.L. Catapano, et al.  2019 ESC/EAS guidelines for the management of dyslipidaemias: lipid modification to reduce cardiovascular risk, Atherosclerosis 290 (2019) 140–205.

[24]G.J. Pearson, G. Thanassoulis, T.J. Anderson, et al. Canadian cardiovascular society guidelines for the management of dyslipidemia for the prevention of cardiovascular disease in adults, Can. J. Cardiol. 37 (2021) 1129–1150, 2021.

 

Misurare il colesterolo-LDL o il numero di particelle LDL? Apolipoproteina B (Apo-B)

 

La misura del colesterolo LDL (LDL-C) è il caposaldo della valutazione del rischio cardiovascolare e per la verifica della efficacia della terapia da quasi due decenni. La domanda che molti addetti ai lavori si stanno facendo in questo momento è la seguente: è più importante per un profilo di rischio cardio-metabolico determinare la concentrazione del colesterolo-LDL, ad esempio calcolando i milligrammi di colesterolo-LDL presenti in un decilitro di plasma (mg/dl), oppure il numero di particelle LDL (LDL-P) presenti nello stesso volume?

Proviamo insieme ad evidenziare le differenze sostanziali in maniera semplice e chiara.

Le lipoproteine LDL non sono una specie molecolare unica, ma una popolazione eterogenea e poli dispersa di particelle con composizione chimica e proprietà fisiche (densità, diametro etc.) variabili. Vi saranno molte sotto-frazioni delle Lipoproteine LDL e possiamo distinguerle dal size, cioè dalla loro taglia o dimensione: ci saranno le “normal-size” e le small-dense LDL (sd-LDL), cioè LDL piccole e dense [25]. La perdita di informazione se ci regolassimo soltanto sulla determinazione del contenuto di colesterolo presente nella totalità delle lipoproteine-LDL sarebbe enorme, soprattutto quando ci sono modelli confermati che ci indicano come la frazione piccola e densa abbia un ruolo aterogeno molto più attivo. Introduciamo un nuovo marker: l’apolipoproteina-B (ApoB), una componente proteica di tutte le Lipoproteine potenzialmente aterogene. Con buona approssimazione possiamo dire che in condizioni normali (non in pazienti con elevata iper-trigliceridemia) più del 90% delle ApoB saranno legate ad una particella LDL e poiché per ogni Lipoproteina LDL c’è una e una sola molecola ApoB, questa sarà presente sia nella LDL normal size, sia nella frazione piccola e densa (sd-LDL). ApoB quindi è il miglior marker clinico che riesca ad indicarci il numero di particelle LDL (LDL-P).

Cercherò di fare un esempio pratico che ho trovato in questo bellissimo articolo e renderlo più chiaro possibile [26]. Immaginate di avere due pazienti diversi, uno con fenotipo A, non aterogeno, ed uno con fenotipo B aterogeno. Entrambi i pazienti hanno la stessa concentrazione di colesterolo-LDL, immaginate un valore di 140 mg/dl, che è un valore medio di una popolazione adulta.

Andando a misurare la ApoB, la pallina piccola sferica presente in ogni lipoproteina LDL, questa ci darà come abbiamo già detto il numero di particelle LDL. Vedete come nel fenotipo A non aterogeno il numero di ApoB è molto inferiore rispetto al fenotipo B. Poiché abbiamo detto che la concentrazione di colesterolo LDL è medesima nei due pazienti, per avere la stessa concentrazione di colesterolo LDL nello stesso volume per forza di cose il fenotipo A sarà caratterizzato da LDL con un size maggiore (IbLDL), rispetto al fenotipo B che conterrà LDL con un size piccolo e denso (sd-LDL); in altre parole se il maggior numero di ApoB deve stare nel medesimo spazio, per forza di cose le lipoproteine che lo contengono devono avere una taglia più piccola. Nel fenotipo B aterogeno quindi il numero di ApoB è maggiore ed è maggiore la sotto frazione sd-LDL. Numerosi studi epidemiologici prospettici hanno dimostrato che sia ApoB che LDL-P sono predittori significativi di CHD (patologia coronarica acuta). La misura di ApoB o LDL-P per l'accertamento del rischio di CHD è importante nell'ampio (e rapidamente crescente) sottogruppo di popolazione con diabete o con le caratteristiche della sindrome metabolica. I diabetici o i soggetti con sindrome metabolica tendono ad avere un aumentato numero di LDL piccole e dense, ma una concentrazione di LDL-C relativamente normale (lo vedremo nei prossimi modelli aterogeni che presenterò).

Quindi ApoB è molto importante come markers clinico in quanto identifica sia uno stato pro-aterogeno, sia un aumento della dis-lipidemia dovuta all’insulino resistenza. Voglio riportare integralmente un documento della Società Biochimica Italiana che nel 2010 aveva tradotto le linee guida dell’American Association for Clinical Chemistry (AACC): si è accumulata nel tempo un’enorme quantità di evidenze che dimostrano la superiorità di ApoB rispetto al LDL-C per l’accertamento del rischio cardiovascolare. Di conseguenza, aggiungere la misura di ApoB al gruppo di esami lipidici per la verifica del rischio di eventi avversi e il relativo monitoraggio dovrebbe consentire un miglioramento della gestione dei pazienti. Il successivo passo logico è l’inserimento di ApoB nelle varie linee guida [27].

Ad oggi quindi non si sono fatti passi avanti nell’inserimento di ApoB quale marker predittivo di screening, ma si sono fatti enormi passi avanti nella determinazione quantitativa, robusta e ripetibile della frazione aterogena small-dense LDL.

 

[25] Apolipoprotein B Particles and Cardiovascular Disease A Narrative Review. JAMA Cardiology Published online October 23, 2019

[26] LDL-C or apoB as the best target for reducing coronary heart disease: should apoB be implemented into clinical practice? Clin. Lipidol. (2011) 6(1), 35–48

[27] Apolipoproteina B e rischio cardiovascolare: la posizione del Working Group on Best Practices della Divisione Lipoproteine e Malattie Vascolari dell’American Association for Clinical Chemistry (AACC)*. biochimica clinica, 2010, vol. 34, n. 1

 

Le small-dense LDL (sd-LDL): un marker predittivo e affidabile

 

Abbiamo già introdotto il concetto di come le Lipoproteine LDL siano una specie poli dispersa di particelle con proprietà chimico fisiche differenti. Abbiamo già visto come la quota di particelle LDL piccole e dense presenta un potenziale aterogeno molto elevato ed è fortemente associata al rischio di eventi cardiovascolari.

Ma per quale motivo? Perché le sd-LDL sono più aterogene delle normal size? I motivi secondo le ultime revisioni scientifiche sono principalmente 2:

  1. Dal modello aterogeno descritto dagli autori nell’autorevole rivista JAMA nel 2019 con una maggiore ritenzione c’è una più alta probabilità statistica che la particella LDL-C venga intrappolata all’interno dell’arteria. E la maggiore ritenzione avviene con un aumento di ApoB e sd-LDL.
  2. Le sd-LDL hanno una emivita maggiore rispetto alle LDL con size più grande e densità inferiore: hanno perciò più possibilità, più tempo, per essere modificate, glicate, ossidate. Saranno le LDL-ossidate o le LDL-modificate ad avere una affinità inferiore con i recettori scavenger delle LD ed una affinità maggiore con i recettori dei macrofagi di cattura. In parole più semplici: le LDL-modificate/ossidate non vengono ripulite velocemente attraverso la clearance epatica e vengono catturate con più facilità dai macrofagi nella formazione della placca aterogena schiumosa.

La misura delle sd-LDL va a collegarsi al ruolo aterogeno, oramai accertato, delle LDL-ossidate. Le LDL-ossidate (Oxidized LDL, o ox-LDL) costituiscono la frazione di lipoproteine che hanno subìto modificazioni ossidative. Tali modificazioni sono da intendere come danni cellulari, provocati dai ROS (radicali liberi prodotti dall’ossigeno) e altre specie altamente reattive. La formazione di questi radicali liberi è in realtà fisiologica, in conseguenza al normale metabolismo energetico; tuttavia una produzione eccessiva (il cosiddetto stress ossidativo) ne comporta un accumulo, che sovraccarica i sistemi predisposti alla loro eliminazione, provocandone un’incontrollata presenza in circolo. Sarà proprio questa condizione a permettere a tali radicali di entrare in contatto con altri distretti cellulari, provocando l’ossidazione dei substrati più suscettibili (cioè più facilmente ossidabili). L’ossidazione la dobbiamo considerare un invecchiamento precoce, una modificazione strutturale di molecole bioattive: queste modificazioni irreversibili inducono dei cambiamenti biologici spesso aberranti come la perdita del folding delle proteine (Alzheimer) o la mutazione dei geni del DNA nel rischio oncologico. Le modificazioni strutturali delle LDL rappresentano quindi un substrato dannoso per l’organismo. È infatti sempre più chiaro il loro ruolo nella patogenesi dell’aterosclerosi [28], in quanto il processo aterosclerotico risulta avviato e poi alimentato proprio dalle LDL-ossidate. In due Review, del 2015 [28] e molto recentemente nel 2022 [29], gli autori descrivono i vari step secondo cui le LDL-ossidate sono implicate nel processo aterogeno.

 

In definitiva l’associazione tra LDL-ossidate e sd-LDL nel rischio aterosclerotico è molto stretta e ne abbiamo spiegato i motivi. Rimane il quesito: in un pannello di rischio aterogeno quale si preferisce? Se valutiamo le pubblicazioni queste vanno in netto vantaggio alle sd-LDL: nel 2013, l’Associazione Americana di Chimica Clinica (AACC), ha prodotto un documento dove si pongono a confronto - come indicatori di aterogenesi – i classici marcatori lipidici (per esempio il colesterolo-LDL), con l’apolipoproteina B (apo-B) e le particelle sd-LDL; dal confronto statistico è emerso che il valore di quest’ultime è il più predittivo per la prevenzione del rischio cardiovascolare [30]. L’ultima Revisione uscita nel 2022 rafforza ancora di più la determinazione della sottoclasse LDL che migliora sia la previsione del rischio di malattia coronarica sia la guida al trattamento appropriato [31]. Faccio un ulteriore esempio per essere più chiaro e comprensibile. Il marker clinico LDL-ossidate dipende da molti più fattori rispetto alle sd-LDL: dipende dai livelli basali delle sd-LDL, dipende dall’azione ossidante dei ROS (che vedremo nei prossimi paragrafi come misurare) e dipende da fattori esogeni ed endogeni antiossidanti (più i secondi che i primi). Le LDL-ossidate sono la fotografia finale del potenziale aterogeno, ma il vero marker con cui fare prevenzione sono i livelli basali, le sd-LDL. Per fare una giusta prevenzione il clinico deve lavorare su questo marcatore prima che la fotografia sia in uno stadio critico: si deve cercare di modulare le sd-LDL prima che le LDL-ossidate siano a livelli aterogeni, attraverso stile di vita, alimentazione e il lavoro come vedremo sull’insulino resistenza.

Oggi la determinazione delle sd-LDL è molto robusta e riproducibile attraverso metodiche pubblicate ed accettate dalla comunità scientifica [32]. Abbiamo, inoltre, a disposizione diversi lavori in grado di darci dei cut-off su cui il clinico può basarsi nel fare la giusta prevenzione. In riferimento all’enorme studio MESA (uno studio prospettico di coorte multietnico di circa 3938 soggetti di età compresa tra 45 e 84 anni, senza CAD clinica al basale) è stato individuato un cut-off pari a 1.252 mmol/L sopra il quale ci troveremo in uno stato di elevata criticità [32]. Nello studio ARIC (Atherosclerosis Risk in Communities) è stato individuato un cut-off di sd-LDL superiore a 50 mg/dl (1,29 mmol/L) sopra il quale è aumentato il rischio CAD [33]. In un altro studio condotto in Giappone [34] valori di LDL-C sopra la mediana di 100 mg/dL non supporta un aumento di rischio CAD, mentre valori di sd-LDL sopra la mediana di 35 mg/dL supporta un significativo aumento di eventi cardiovascolari nei pazienti con malattia coronarica stabile.

È stato svolto uno studio per individuare dei limiti di riferimento da dare in mano al clinico per individuare i valori di allerta. I partecipanti arruolati in due regioni degli USA sono stati suddivisi per età e genere sulla base di 4 parametri: (1) uomini di 21‑44 anni, (2) uomini di 4575 anni, (3) donne di 2154 anni (in presunta pre-menopausa) e (4) donne di 55‑75 anni (in presunta post-menopausa). Gli intervalli di riferimento determinati sono illustrati in figura sotto (dati interni alla metodica ROCHE).

In definitiva oggi si hanno a disposizione opportuni strumenti diagnostici e limiti di riferimento appropriati per meglio prevenire un rischio coronarico, che 10 anni fa non si avevano. Perché non utilizzarli?

 

[28] Role of Oxidized LDL in Atherosclerosis. Hypercholesterolemia. 2015.

[29] Mechanisms of Oxidized LDL-Mediated Endothelial Dysfunction and Its Consequences for the Development of Atherosclerosis. Front. Cardiovasc. Med. Volume 9 – 2022.

[30] Cole, T. et. al. Association of Apolipoprotein B and Nuclear Magnetic Resonance Spectroscopy–Derived LDL Particle Number with Outcomes in 25 Clinical Studies: Assessment by the AACC Lipoprotein and Vascular Diseases Division Working Group on Best Practices. Clinical Chemistry May 2013 vol. 59 no. 5 752-770.

[31] Harold Superko and Brenda Garrett. Small Dense LDL: Scientific Background, Clinical Relevance, and Recent Evidence Still a Risk Even with ‘Normal’ LDL-C Levels. Biomedicines 2022, 10, 829.

[32] Michael Y. Tsai et al. New Automated Assay of Small Dense Low-Density Lipoprotein Cholesterol Identifies Risk of Coronary Heart Disease: The Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis. Arterioscler Thromb Vasc Biol. 2014 January ; 34(1): 196–201.

[33] Hoogeveen, R.C et al. Small dense low-density lipoprotein-cholesterol concentrations predict risk for coronary heart disease: The Atherosclerosis Risk in Communities (ARIC) study. Arterioscler. Thromb. Vasc. Biol. 2014, 34, 1069–1077.

[34] Nishikura, T.; Elevated small dense low-density lipoprotein cholesterol as a predictor for future cardiovascular events in patients with stable coronary artery disease. J. Atheroscler. Thromb. 2014, 21, 755–767

 

Ruolo pro-aterogeno dell’insulino resistenza: quali strumenti abbiamo per misurarlo?

 

L’insulino-resistenza è un disturbo metabolico direttamente collegato allo sviluppo della sindrome metabolica e ai disturbi che l’accompagnano, come aumento della deposizione di grasso addominale, disturbi del metabolismo lipidico, ipertensione, affaticamento intenso e bassi livelli di energia. Otto adulti su dieci hanno almeno uno dei suddetti disturbi metabolici. La sindrome metabolica è il fattore aggravante più importante per la salute di milioni di persone nel mondo occidentale. Spiegare cosa è l’insulino resistenza non è l’obiettivo del mio intervento, ma sicuramente questa pandemia che sta devastando il mondo occidentale ha una sola causa ben definita: eccesso di zuccheri raffinati nella nostra alimentazione e sedentarietà. La resistenza all’insulina o insulino resistenza (IR) è una condizione in cui le cellule del corpo diventano resistenti agli effetti dell’insulina, cioè la normale risposta a una determinata quantità di insulina è ridotta. Di conseguenza, sono necessari livelli di insulina più elevati per ottenere la stessa risposta metabolica. La correlazione tra insulino resistenza, sindrome metabolica ed eventi cardiovascolari è riconosciuta e accettata oramai da molti anni [35]. In precedenza si pensava che solo i diabetici di tipo 2 affetti da sindrome metabolica fossero maggiormente a rischio cardiovascolare, mentre la comunità scientifica oggi ha individuato come sia un fattore che presenta un rischio due volte maggiore di sviluppare malattie cardiache nell’intera popolazione. Da una importante meta-analisi del 2010 che ha esaminato oltre 3000 studi clinici e 951.083 pazienti affetti da sindrome metabolica, è emerso che, indipendentemente dalla presenza di altre patologie, i soggetti avevano un maggior rischio cardiovascolare e di mortalità [36].

Ad oggi i due esami clinici utilizzati in routine per l’individuazione dell’insulino resistenza sono l’emoglobina glicata e la dis-lipidemia (colesterolo e trigliceridi elevati). Ma quanto sono predittivi? Ai pazienti rispondo sempre in questo modo: quando abbiamo una glicemia sopra a 110 ed una emoglobina glicata alterata, siamo sicuramente in condizioni di pre-diabete in cui la resistenza all’insulina ha già prodotto i suoi danni e non siamo stati capaci di fare prevenzione e di prevenire i gravissimi danni prodotti nel tempo dalla sindrome metabolica. Inoltre le dis-lipidemie e i bassi valori del colesterolo HDL in sé non hanno la capacità di fare prevenzione in quanto abbiamo già visto come le condizioni siano molto complesse, in cui i fattori familiari e la sedentarietà possono avere un ruolo importante.

Ci sono quindi dei markers che possono essere utilizzati dal clinico, non per fare diagnosi ma per fare prevenzione? Almeno tre possono essere prescritti e valutati dal medico di base nei controlli di routine. Uno strumento ampiamente utilizzato per stimare la sensibilità all'insulina è il modello di valutazione omeostatico (homeostasis model assessment, HOMA), calcolato utilizzando la Glicemia e i livelli d'Insulina a digiuno [37]. Valutato singolarmente il valore della Glicemia non è assolutamente in grado di fare predizioni riguardo appunto all’insulino resistenza e questo valore deve essere associato all’ Insulina basale. Il valore della Glicemia può restare per molti anni sotto ai valori di soglia dei 105 mg/dl e nel frattempo i valori di Insulina crescono nel tempo senza accorgercene, continuando a creare danni cardio metabolici e ad essere un fattore di sicuro e riconosciuto rischio cardiovascolare. Prendiamo due pazienti con valori normali di Glicemia basale di 95 mg/dl. Un primo paziente ha valore di insulina intorno a 7 uU/ml, il secondo a 25 uU/ml. I due pazienti non possono essere valutati allo stesso modo: nel secondo paziente per ottenere lo stesso indice glicemico, abbiamo bisogno di molta più insulina. Se ad esempio un giovane necessita di 10 unità di insulina ogni 100g di zucchero, se si instaura una situazione di insulino resistenza necessiterà ad esempio di 15 unità di insulina per lo stesso quantitativo di zucchero. Più l’insulino resistenza peggiora e maggiore è il numero di unità di insulina che l’organismo richiede per metabolizzare la stessa quantità di glucosio, fino ad arrivare ad una situazione in cui è necessario somministrare insulina dall’esterno, perchè il pancreas non riesce più a far fronte alle richieste dell’organismo. Cosa significa questo? Significa che spesso nel sangue viene controllata solo la glicemia (che dovrebbe oscillare tra 70 e 99 mg/dl), senza pensare magari che per mantenere quella glicemia nel range di normalità ci sia alla base una iper produzione di insulina.

Molti lavori presenti in letteratura dimostrano l’utilità preventiva dell’HOMA-Index. Citiamo per brevità solo lo studio condotto dalla Miller School of Medicine dell'Università di Miami che ha valutato, utilizzando l'indice HOMA, l'insulino-resistenza di 1509 soggetti non diabetici che hanno partecipato al Northern Manhattan Study: una ricerca diretta all'osservazione dei diversi livelli di rischio, di incidenza e di prognosi dell'ictus in una comunità urbana multietnica [38]. Durante il periodo di follow-up, durato otto anni e mezzo, gli eventi cardiovascolari si sono verificati in 180 partecipanti, dei quali 46 hanno avuto ictus ischemici, 45 hanno avuto infarti miocardici e 121 sono morti di cause cardiovascolari. I soggetti compresi nei più alti livelli dell'indice HOMA avevano un rischio aumentato del 45 per cento rispetto ai pazienti con livelli più bassi.

L'insulino-resistenza, alterando il meccanismo di utilizzazione del glucosio e dei lipidi, provoca effetti adesso ben conosciuti: oltre a un aumento della glicemia in senso pre-diabetico o diabetico, emerge di frequente un profilo lipidico che viene definito “aterogeno”, un modo abbastanza esplicito di metterlo in relazione col processo di aterosclerosi alla base di malattie come infarto, ictus, insufficienza arteriosa periferica. Uno ampio studio longitudinale di vasta scala condotto dal CHNS (China Health and Nutrition Survey) è stato in grado di coprire una grossa percentuale dell'intera popolazione cinese, molto diversificata in termini di appartenenza geografica, sviluppo economico e caratteristiche sanitarie, con dati raccolti dal 1989 al 2009. Sono stati esclusi dallo studio i soggetti con diabete, malattia renale, obesità estrema e valori molto elevati di colesterolo HDL e trigliceridi. In questo ampio studio i ricercatori, hanno trovato dei livelli di rischio aterogeno e di insulino resistenza dando dei cut-off di rischio, mediante il rapporto Trigliceridi/HDL, che è risultato il miglior indice di screening di insulino resistenza rispetto ad altri valori lipemici. Come intuibile, un aumento del rapporto Tg/HDL è la conseguenza dell’effetto dell’IR sul metabolismo lipidico: l’insulino resistenza agisce a livello epatico aumentando notevolmente le lipoproteine circolanti ricche in Trigliceridi.

Riassumiamo questo paragrafo indicando come i markers che possono essere estrapolati da esami di routine - quali HOMA-I, rapporto Tg/HDL- ed esami più avanzati quali sd-LDL o Lipidomica eritrocitaria, di cui parleremo nel prossimo capitolo, ci daranno la possibilità di capire se una dis-lipidemia aterogena è legata all’insulino resistenza, alimentazione errata o alla familiarità genetica. Solo in questo modo riusciremo a fare prevenzione e non a formulare una diagnosi che sarebbe sempre tardiva rispetto all’evoluzione di una patologia, quale la sindrome metabolica, che sta diventando una vera e propria pandemia del nuovo millennio.

 

[35] La sindrome metabolica: impatto sul rischio cardiovascolare. G Ital Cardiol 2010; 11 (11 Suppl 1): 29S-32S.

[36] The Metabolic Syndrome and Cardiovascular Risk. A Systematic Review and Meta-Analysis. JACC Vol. 56, No. 14, 2010

[37] Clinical usefulness of lipid ratios, visceral adiposit indicators, and the triglycerides and glucose index as risk markers of insulin resistance. Cardiovascular Diabetology 2014, 13:146

[38] Insulin Resistance and Risk of Ischemic Stroke Among Nondiabetic Individuals From the Northern Manhattan Study. Arch Neurol. 2010;67(10):1195-1200

[39] Indice triglicerdi-glicemia, insulino-resistenza e rischio cardiometabolico. Triglyceride-glucose index, insulin resistance and cardiometabolic risk. Giornale Italiano dell’Arteriosclerosi 2023; 14 (2): 15-28

[40] Henry N. Ginsberg et al. Triglyceride-rich lipoproteins and their remnants: metabolic insights, role in atherosclerotic cardiovascular disease, and emerging therapeutic strategies—a consensus statement from the European Atherosclerosis Society. European Heart Journal (2021) 42, 4791–4806.

 

Ossidazione e perdita di Metilazione: due fattori di rischio cardio vascolare quasi mai presi in considerazione.

 

Abbiamo visto nei precedenti paragrafi come l’ossidazione, la modificazione chimica e strutturale delle LDL e di molecole biologicamente attive, siano un fattore determinante in tutte le patologie cardio metaboliche dall’arteriosclerosi alla patologia oncologica. Queste modificazioni avvengono da parte di agenti chimici altamente reattivi che si identificano nello stress ossidativo e i cui livelli aumentano durante stati patologici, sindrome metabolica, esposizione ad inquinanti ambientali e radiazioni solari. A livello fisiologico queste molecole chimiche altamente reattive (ROS, Reacting Oxygen Species) possono anche essere utili per motivi di resilienza e ormesi (la risposta endogena dell’organismo a situazioni di forte stress e disagio), ma quando le difese antiossidanti endogene (Glutatione, SOD, Coenzima-Q10) o esogene (Vitamina C) non sono più in grado di neutralizzare la molecola del ROS in maniera efficace l’ossidazione prende il sopravvento dando vita a sistemi di invecchiamento cellulare (aging) aberranti. La medicina epigenetica va proprio in questa direzione: cercare di utilizzare modelli di vita e micronutrienti come i polifenoli e Omega_3 in grado di attivare la trascrizione dei geni in grado di produrre i sistemi antiossidanti endogeni. Come riporta il Prof Scapagnini, uno dei più importanti ricercatori italiani, nelle sue pubblicazioni e divulgazioni,  i polifenoli sono sostanze presenti nel mondo vegetale, fondamentali per la sopravvivenza delle piante. Sono definiti adattogeni per le piante. Non fanno parte della nostra biochimica, per questo vengono chiamati anche "non nutrienti", ma agiscono come allenatori delle nostre cellule, contribuendo al benessere dell'intero sistema. Sono presenti in tutta la frutta e verdura che mangiamo. Alcuni, come le antocianine, danno colore ai frutti di bosco. Il nostro organismo reagisce alla loro presenza attivando meccanismi di adattamento utili alla salute. Diversi studi hanno associato i polifenoli al miglioramento della salute durante l'invecchiamento.

In questo contesto, il clinico ha bisogno degli strumenti in grado di quantificare il danno subito dalle nostre cellule sia per avere una stima dello stress ossidativo sia per capire se abbiamo bisogno di modificare il nostro stile di vita (attività fisica, alimentazione etc.) che non è più in grado di produrre molecole biologiche antiossidanti.

Il ricercatore italiano Carratelli ha da tempo sviluppato un metodo quantitativo e riproducibile per misurare lo stress ossidativo attraverso la misura dei prodotti di ossidazione delle nostre membrane cellulari presenti nel plasma. Il test indicato come d-ROMs (derivatives-Reactive Oxygen Metabolites) è ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica. Se noi digitiamo il nome del test su pubmed – il più importante motore di ricerca scientifico - escono migliaia di lavori e trials clinici che lo hanno utilizzato come marcatore dello stress ossidativo. Il test è altamente riproducibile rispetto ad altri markers utilizzati in fase di ricerca (MDA, Isoprostani urinari in metodica ELISA) con limiti di riferimento definiti dall’ Osservatorio Italiano sullo Stress Ossidativo ed espressi in Unità Carratelli (UC). In una recente Review sono stati proposti tutti i trials clinici che hanno correlato eventi CAD con i valori di d-ROMs [41] ed è stato proposto un cut-off di d-ROMs superato il quale il danno ossidativo rientra in uno stadio a rischio aterogeno [42].

Un altro fattore coinvolto nell’invecchiamento cellulare è l’omocisteina. L’omocisteina (Hcy) è un aminoacido non proteico prodotto dal metabolismo della metionina, un aminoacido essenziale che viene introdotto nel nostro organismo con la dieta. L’omocisteina è coinvolta nella metilazione, un processo metabolico fondamentale per un’adeguata formazione e riparazione del DNA, per la regolazione della crescita cellulare, per la corretta espressione dei geni.

Tutti processi biochimici collegati all’invecchiamento precoce.

Se un substrato o un enzima non sono correttamente presenti ci può essere un'alterazione della capacità metilante più o meno grave a seconda della combinazione di problematiche che ciascuno esprime. Avere un polimorfismo (mutazione) dell'enzima MTHFR può aumentare la frequenza degli errori con cui viene trascritto l'enzima e causare una debolezza nel ciclo omocisteina-metionina che può far sviluppare o aggravare una molteplicità di patologie del sistema cardiovascolare. La società moderna con la sua alimentazione deficitaria colma di antinutrienti, il suo stile di vita sedentario e stressante, l'alterazione del sonno, aumenta il fabbisogno di metilazione e causa la comparsa di problemi in chi ha il deficit di metilazione. Secondo un gruppo di ricercatori dell’Università di Edimburgo, con la collaborazione di colleghi australiani e americani, ci sarebbero ulteriori prove della correlazione fra metilazione del DNA e l’aspettativa di vita [43]. Se il corpo è povero di fattori della metilazione (es. vitamine gruppo B) le essenziali funzioni di detossificazione, riparazione e costruzione saranno danneggiate. Tra tutti i segnali, l’accumulo di omocisteina nel sangue è un marker importante di inefficiente metilazione. Inoltre l’aumento della concentrazione plasmatica di omocisteina è collegato ad un maggior rischio di malattie cardiovascolari attraverso numerosi processi metabolici pro-infiammatori e pro-ossidanti che compromettono la funzione endoteliale con conseguente aumento del rischio di infarto, ictus ischemico, trombosi ed embolia polmonare [44]. Anche in questo caso questo marker, nonostante sia inserito negli esami di routine, non viene quasi mai prescritto, mentre sarebbe in grado di fornirci numerose informazioni e quadri di rischio predittivi legati a sindrome metabolica, deficit nutrizionali del complesso della vitamina B, malassorbimento vitaminico causato da disbiosi e permeabilità intestinale, mutazione MTHFR.  Valori di omocisteina elevati devono essere modulati e riportati nei limiti di riferimento fisiologici attraverso attività fisica adattata all’individuo e alla giusta integrazione/alimentazione sia con complessi di vitamina B o con complessi di metilfolato, in pazienti con mutazione MTHFR, in grado di superare quegli step biochimici in cui l’enzima è carente.

Per ultimo parliamo dell’acido urico. L’acido urico è il prodotto finale del catabolismo delle purine. Aumentati livelli plasmatici di acido urico possono essere conseguenza di un’aumentata produzione o ridotta escrezione. Dal punto di vista fisiopatologico, l’effetto più noto di un’iperuricemia persistente è il tipico accumulo di cristalli di urato a livello delle articolazioni con conseguente sviluppo della gotta, una condizione patologica i cui effetti erano già descritti dagli antichi padri della medicina (es. Ippocrate, V secolo a.C.). Sebbene numerosi studi clinici abbiano documentato un’associazione tra elevati livelli plasmatici di acido urico e diversi fattori di rischio cardiovascolare, come ad esempio l’ipertensione arteriosa, l’obesità, la sindrome metabolica, le dislipidemie, il suo utilizzo come marker di rischio cardio metabolico è poco diffuso. L’iperuricemia è una condizione frequente nei pazienti con scompenso cardiaco. In una coorte di 1869 pazienti ricoverati per scompenso cardiaco, più della metà (56%) presentava elevati valori di uricemia (≥7.4 mg/dl) [45].

 

[43] Marioni RE et al. DNA methylation age of blood predicts all-cause mortality in later life. Genome Biology 2015 16:25.

[44] Subclinical inflammation, telomere shortening, homocysteine, vitamin B6, and mortality: the Ludwigshafen Risk and Cardiovascular Health Study. European Journal of Nutrition (2020) 59:1399–1411.

[45] JCARE-CARD Investigators. Hyperuricemia predicts adverse outcomes in patients with heart failure. Int J Cardiol 2011;151:143-7.

[46] Hyperuricemia and incident heart failure. Circ Heart Fail 2009;2:556-62.

[47] Association between serum uric acid and atrial fibrillation: a systematic review and meta-analysis. Heart Rhythm 2014;11:1102-8.

[48] Association of serum uric acid with incident atrial fibrillation (from the Atherosclerosis Risk in Communities [ARIC] study). Am J Cardiol 2011;108:1272-6.

[49] Statement ANMCO: Acido urico e malattie cardiovascolari: evidenze e approccio terapeutico. G Ital Cardiol 2023;24(6):483-489

 

Infiammazione cronica cellulare: l’era della risoluzione

 

L’infiammazione cronica è entrata a conoscenza di tutti quando la più importante rivista letta al mondo come il Times usciva nel 2004 con un titolo che in ambito scientifico fece storia: “The secret killer”. Ma già il 6 Giugno 1994 usciva sul Corriere della Sera una intervista che giudicherei futuristica del Dr Maseri, uno dei più importanti cardiologi italiani. Cito testualmente parte dell’intervista: “colesterolo ed aterosclerosi non possono essere considerati responsabili dell’improvviso blocco delle arterie coronarie. L’infarto sarebbe dovuto ad un’infiammazione delle arterie”.

Come possiamo definire in termini comprensibili a tutti l’infiammazione cellulare o inflammaging?

Inflammaging è la crasi, possibile solo in inglese, tra le parole "inflammation" e "aging" e si riferisce alla relazione tra i processi dell’invecchiamento e l’infiammazione basale cronica, a bassa intensità. È noto da tempo che la vecchiaia sia caratterizzata da uno stato pro-infiammatorio e molte malattie età correlate condividono una patogenesi infiammatoria. Le risposte infiammatorie sembrano essere il meccanismo prevalente di attivazione del danno tissutale, associato alle differenti malattie età-correlate. Abbiamo già visto nei precedenti capitoli come l’infiammazione sia un fattore determinante per l’avvio dei processi arteriosclerotici: il sito di rottura della placca è una zona in cui prevalgono i macrofagi che sono arrivati a fare i loro ruoli di spazzini attraverso appunto l’infiammazione.

Esistono due tipi di infiammazione, differenti a seconda della loro durata all’interno dell’organismo. L’infiammazione acuta è il processo che si instaura in seguito ad un trauma, una ferita o un’infezione, a seguito del quale l’organismo tenta di curare sé stesso, ma va ad interferire con il funzionamento delle nostre cellule. L’infiammazione cronica, per contro, è una condizione di irritazione persistente che può non dare sintomi per anni ma può essere più distruttiva per i tessuti vitali di quella acuta. Essa coinvolge l’equilibrio immunitario, e inoltre comporta fenomeni di glicazione, stress ossidativo, alterazione dell’equilibrio degli acidi grassi tipici dei fenomeni di invecchiamento. Il concetto tradizionale dell’infiammazione come una reazione ad un assalto microbico o danno tissutale è stato nel corso degli ultimi anni espanso e rivisto per riuscire a spiegare tutti quei tipi di infiammazione osservabili in condizioni di rottura dell’omeostasi. È adesso nota l’esistenza di una risposta infiammatoria e di basso grado, persistente in vari tessuti, denominata appunto “infiammazione silente”. Quest’ultima, opera in maniera subdola, senza alcun segno apparente, anche per decenni, finché spalanca le porte alle malattie cronico degenerative. Infatti, in questo particolare stato infiammatorio di bassa intensità, ma cronico, avvengono reazioni biochimiche caotiche che può mandare in tilt il sistema immunitario con danni cellulari irreversibili.

La nuova era della medicina è la Risoluzione dell’inflammaging: alla fase infiammatoria, ci deve essere una fase risolutiva mediata da molecole indispensabili a spegnere la brace dell’infiammazione. Questa fase risolutiva è guidata da molecole derivanti da acidi grassi Omega_3 (proresolvine) e dai rapporti cellulari Omega_6/Omega_3.

 

Poiché l’infiammazione cellulare non dà luogo a percezioni di dolore, descriverla e misurarne l’entità è stato fino a poco tempo fa un compito arduo. Il primo marker dell’infiammazione cellulare è stata la proteina C-reattiva ad alta sensibilità che conoscerete tutti, l’hs-PCR. Questo marcatore ha due importanti svantaggi: il primo è che persino le lievi infezioni batteriche ne innalzano in men che non si dica i livelli, inoltre è un indicatore tardivo dell’infiammazione cellulare.

 

Ma quale è il sistema anti-infiammatorio più importante riconosciuto a livello cellulare?

 

Tra i processi più importanti da tenere in considerazione c’è sicuramente l’equilibrio Omega_6/Omega_3 [50]. Entrambi sono Acidi Grassi (AG) polinsaturi indispensabili per la nostra vita; sono indicati come essenziali perché i precursori non possono essere prodotti a livello endogeno dal nostro organismo ma devono essere assunti dalla dieta: gli Omega_6 sono presenti nel mondo vegetale, come gli oli di semi, e possono ovviamente essere introdotti con la carne rossa. Gli Omega_3 sono presenti nella frutta secca e nella carne grassa del pesce. Il capostipite della cascata Omega_6 come l’Acido Arachidonico (AA) è il precursore di ormoni ad azione pro-infiammatoria, invece gli Omega_3, presenti nel pesce come EPA e DHA, sono i precursori di ormoni ad azione anti-infiammatoria e risolutiva. Quindi l’omeostasi infiammatoria è data dal rapporto Omega_6/Omega_3 presente nelle nostre membrane cellulari. I nostri antenati che vivevano in un periodo dove non esistevano patologie cronico degenerative avevano un rapporto alimentare Omega_6/Omega_3 intorno a 4, mentre oggi è assolutamente riconosciuto come nelle diete occidentali questo rapporto è altamente patologico con valori addirittura sopra a 50. Con il Dr Fusco siamo arrivati a leggere valori eritrocitari sopra a 100!!!!!!

Guarda caso le patologie cronico-degenerative sono una pandemia del mondo occidentale del nuovo millennio. Molto spesso ascolto in diversi convegni divulgativi in cui si parla di alimentazione anti-infiammatoria genitori che alzano la mano e ci dicono come i loro figli non mangino né pesce né frutta secca. Rispondo loro che è come dire “mio figlio non ha bisogno di vitamine”.

Gli Omega_3 sono a tutti gli effetti nutrienti essenziali come le vitamine e contengono la chiave anti-infiammatoria e risolutiva. L’infiammazione è un processo autolimitante e protettivo. La sua risoluzione è guidata da molecole derivanti dall’ EPA e DHA che favoriranno la continuità della vita e la rigenerazione analogamente a quello che succede ad un bosco dopo il passaggio di un incendio. La conoscenza di questi meccanismi è frutto di oltre 20 anni di ricerca a partire da semplici indizi e ipotesi che hanno richiesto anni ed anni di lavoro per poter essere verificate sperimentalmente e portare infine ad una soluzione utilizzabile nella pratica clinica. La scoperta dei mediatori della risoluzione si deve a Charles Serhan, uno dei più importanti biochimici dell’Università di Harvard con la pubblicazione uscita sulla prestigiosa rivista Nature nel 2014 [51]. Questi mediatori sono chiamati oggi proresolvine e non possono essere inseriti nella famiglia degli anti-infiammatori classici per una differenza fondamentale: non inibiscono il processo infiammatorio come fanno i FANS, i cortisonici o alcuni farmaci biologici, ma stimolano specifici processi di risoluzione che sono naturalmente presenti in natura ma non sempre perfettamente funzionanti.

Qual è quindi il ruolo degli Omega_3 EPA e DHA? Perché DEVONO essere assunti dalla dieta? Il loro meccanismo cardio protettivo si riassume in tre punti focali:

  • Sono i precursori delle proresolvine che guidano il processo risolutivo dell’infiammazione
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  • L’EPA è in grado di bloccare la produzione endogena dell’Omega_6 Arachidonico fungendo perciò da molecola anti-infiammatoria. Più Omega_3 assumiamo, meno Arachidonico pro-infiammatorio avremo nelle nostre membrane cellulari.
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  • L’EPA è in grado di competere con l’Arachidonico per lo stesso enzima nella produzione di ormoni pro o anti-infiammatori. Quindi avendo molto EPA nelle nostre membrane l’enzima chiave nella produzione di ormoni infiammatori verrà “spostato” all’utilizzo di ormoni risolutivi.

In una recente review del 2016 vengono descritti tutti i meccanismi biochimici dell’azione cardio-protettiva in chiave anti-infiammatoria degli Omega_3 [52].

L’alimentazione gioca un ruolo fondamentale, in quanto la quantità e la qualità degli acidi grassi essenziali introdotti attraverso la dieta influenza la quantità di Omega_3 e Omega_6 nel nostro organismo. Inoltre, ciò che comunemente non si comprende è che i farmaci antiinfiammatori sono anche antirisoluzione. Si può definite l’anti-infiammazione come arresto della migrazione di neutrofili nella sede dell’infiammazione, ma questo tipo di globuli bianchi sono indispensabili per dare inizio alla sintesi di resolvine. Per questo i medicinali anti-infiammatori come i FANS e corticosteroidi si possono anche considerare molecole antirisolutive. L’inibizione della risoluzione operata da tali farmaci può essere un cofattore degli effetti collaterali di un loro uso prolungato e cronico.

 

Quindi, per una completa risoluzione occorrono adeguate concentrazioni di EPA e DHA. Pensate quanto possa essere importante misurare la biodisponibilità nelle nostre membrane cellulari degli Omega_3 o misurare i rapporti cellullari Omega_6/Omega_3.

 

Oggi abbiamo a disposizione una analisi cellulare molto precisa e avanzata quale è la Lipidomica eritrocitaria, utilizzata in tutto il mondo e che in Italia è stata brillantemente introdotta dal CNR di Bologna dalla Dr.ssa Ferreri [53].

È stato coniato il concetto di nutrilipidomica, cioè la correlazione tra alimentazione e stile di vita e la struttura lipidica delle nostre membrane cellulari che ci indicheranno stati pro-infiammatori, dis-metabolismi correlati ad insulino resistenza e rischio oncologico. Come le altre “(-) omiche” (es. genomica, proteomica) che si occupano in modo dinamico di molecole che esistono negli organismi viventi, la lipidomica permette di valutare, su diverse matrici biologiche, le unità fondamentali delle classi di acidi grassi (AG) che compongono le nostre membrane cellulari: AG saturi, AG monoinsaturi, AG polinsaturi. La lipidomica studia non solo la struttura, ma anche la funzione e le variazioni (rapporti tra acidi grassi) che vengono a determinarsi in diverse condizioni fisio-patologiche, mettendo in stretta relazione le componenti di membrana con lo stato nutrizionale del paziente e con le sue disfunzioni metaboliche (cambiamenti ormonali, insulino resistenza, obesità etc.). È evidente come l’organizzazione della membrana non produca solo un effetto strutturale, ma anzi sia il punto chiave della regolazione e taratura dell’intero funzionamento cellulare. Da ciò la definizione della membrana come pacemaker metabolico per indicare il ruolo di questo compartimento che non può più essere considerato spettatore passivo, ma anzi diviene protagonista attivo della vita e del destino cellulare. Perché si è scelta la membrana dell’eritrocita maturo? Avendo un’emivita di 120 giorni, gli eritrociti permettono di monitorare variazioni nella biosintesi o nell’apporto dietetico sulla composizione delle membrane nell’arco di 4 mesi. Le nostre analisi si basano quindi sulla membrana dell’eritrocita maturo che è il reporter di dieta e metabolismo per tutti i tessuti.

Da oltre 15 anni mi sono appassionato a questo affascinante mondo cellulare: ho costruito database, correlato i vari valori a diverse patologie, messo a disposizione le mie competenze per capire moltissimi dis-metabolismi che possono essere interpretati dalla Lipidomica. Ho utilizzato queste competenze per pubblicazioni internazionali di rilievo su modelli animali [54-55].

Ma quali markers possiamo estrapolare da questo sofisticato esame condotto su una provetta di emocromo di sangue? Moltissimi e non potrò elencarli tutti. Vediamo i principali:

  • L’Omega_3 Index, cioè la biodisponibilità di EPA + DHA presente nelle nostre membrane cellulari.

Oggi è il principale markers cardio protettivo riconosciuto dalla comunità scientifica [56-57] con limiti di riferimento definiti e utilizzati in tutto il mondo [58]. In un contesto di prevenzione cardio-metabolica è oramai imprescindibile non utilizzare questo parametro. Voglio riportare di seguito alcuni rilevanti studi con focus sulla lipidomica eritrocitaria come analisi diagnostica nell’ambito della prevenzione di patologie cardiache. Cito come primo trial clinico il Framingham Heart Study (2018) [59], un vasto studio osservazionale che aveva come end-point primario l’obiettivo di determinare l’associazione tra biodisponibilità di Omega_3 e il rischio di morte per qualsiasi causa o per incidenza di CVD, patologie cardiovascolari. Il marker misurato in tutti i pazienti è stato appunto l’Omega-3 Index. I risultati presi in considerazione comprendevano sia la mortalità generale sia il totale degli eventi CVD in partecipanti che non li avessero all’inizio dello studio o in precedenza. Tra i 2500 partecipanti, si sono registrati 350 morti e 245 eventi CVD, e un alto Omega-3 Index è risultato correlato a un minor rischio di morte totale e di morte non dovuta a eventi CVD né a cancro. Nello specifico, nei pazienti con più alto Omega-3 Index si è individuato un rischio di mortalità totale del 34% più basso, e un rischio di eventi CVD inferiore del 39%. In un altro recente (2021) studio correlato [60], il Framingham Offspring Cohort, viene proposta la lipidomica eritrocitaria come strumento diagnostico predittivo di mortalità totale in una popolazione selezionata di sessantenni (2240), senza noti eventi CVD, con 11 anni di follow-up per misurazioni e test. Un altro importantissimo studio su popolazione focalizzato sulla lipidomica arriva dal Canada [61-62]. Fin dagli anni 60 in America si è tentato di ottenere un campione rappresentativo di popolazione per asserirne lo stato nutrizionale (con il NHANES, National Health And Nutrition Examination Survey); anche il più recente Canadian Health Measures Survey ha raccolto dati epidemiologici tra intake nutrizionale e salute di adulti canadesi. Ma in particolare, il Canada è stato il primo Paese a raccogliere – formalmente e a livello nazionale - tra i dati di popolazione anche l’Omega-3 Index. L’assunzione fatta è che un Omega_3 Index inferiore al 4% sia un indicatore di rischio elevato di eventi CVD fatali, mentre percentuali tra il 4 e l’8 e oltre l’8 individuano, rispettivamente, un rischio intermedio e uno basso.

  • Rapporto infiammatorio AA/EPA

Ad oggi è il marker più importante per “misurare” un quadro infiammatorio come indicato dal biochimico di fama mondiale Barry Sears nella sua lotta all’infiammazione cronica [63]. Un importantissimo studio italiano pilota è stato pubblicato nel 2010: i ricercatori individuarono il valore medio del rapporto AA/EPA eritrocitario in una popolazione italiana di controllo (healthy subject, n=300) ed in una classe di popolazione con diverse patologie degenerative e metaboliche (pathological subject n=577) [64]. I due valori risultarono statisticamente differenti, con un aumento significativo del rapporto nella popolazione patologica. Gli stessi autori dimostrarono come il rapporto AA/EPA suddiviso in diverse popolazioni patologiche sia superiore alla media del rapporto della popolazione di controllo, ad indicare come lo sbilanciamento dell’equilibrio Omega-6/Omega-3 abbia un ruolo cruciale nell’insorgenza di numerose patologie (oncologiche, cardiovascolari, metaboliche) che hanno nell’inflammaging una causa comune scatenante. Il nodo centrale del sistema immunitario innato è il fattore di trascrizione NF-kb (fattore nucleare-kb). È questo l’interruttore principale in grado di attivare l’espressione di vari prodotti genici infiammatori. Alcuni fattori di matrice alimentare sono in grado di attivare l’NF-kB. Tra questi figurano lo stress ossidativo da eccessivo apporto calorico e l’iperproduzione di ormoni proinfiammatori causata dall’eccesso di Acido Arachidonico. Cosi, il rapporto AA/EPA di membrana risulta un marker del potenziale equilibrio di infiammazione e risoluzione in tutte le cellule dell’organismo. Inoltre, a differenza della hs-PCR, questo rapporto è un marker stabile e affidabile, e spesso inizia a elevarsi anni prima dell’incremento dell’hs-PCR. Con la Dr.ssa Virgili, una importante nutrizionista specializzata in nutrizione oncologica, abbiamo caratterizzato popolazioni oncologiche mediante appunto il marker AA/EPA, con tesi di Laurea inserite nel sito longevitainsalute.it del Dr Fusco.

  • Deficit patologici di DHA

Il DHA è l’Acido Grasso insaturo più abbondante tra quelli presenti nelle membrane cellulari dei neuroni (circa il 40% dei fosfolipidi neuronali contiene DHA). La biochimica umana, non è in grado di sintetizzare questo nutriente in maniera efficiente e quindi la composizione lipidica del nostro cervello dipende per lo più dall’assunzione di DHA con la dieta. Molte evidenze scientifiche trovano una correlazione tra deficit di DHA e sbilanciamento del sistema serotoninergico neuronale, con aumento degli stati depressivi e diminuzione delle funzioni cognitive. La possibilità che gli Omega_3, in particolare il DHA, siano in grado di stimolare i processi cognitivi e la memoria, oltre a preservare un corretto funzionamento del cervello anche nell’adulto è supportata da numerose osservazioni epidemiologiche e da ricerche sperimentali e cliniche. Un suo grave deficit è collegato a stati di neuroinfiammazione, forme di autismo, cefalee croniche e stati depressivi con sbilanciamento serotoninergico [65-66]. In una recente Review dell’Università di Messina, gli autori in una meta analisi hanno evidenziato la correlazione inversa che c’è tra consumo di pesce e disordini depressivi relativi all’anno 2004 [66].

Le linee guida della SINU (Società Italiana Nutrizione Umana), individuano la Lipidomica Eritrocitaria quale marker indispensabile per individuare carenze di DHA nelle alimentazioni vegetariane e vegane non controllate, in quanto prive di fonti primarie (ω-3 da pesce) per l’assunzione degli Acidi Grassi Essenziali (AGE) ω-3 [67].

Nei nostri database abbiamo visto come pazienti con carenze di DHA sono sempre associati a stati patologici e ad anamnesi cliniche complicate. Ritengo sia una carenza che deve essere sempre colmata, soprattutto in fase adolescenziale e nello sviluppo.

  • Dis-metabolismi legati ad insulino resistenza e sindrome metabolica

Come riportato nei capitoli precedenti attraverso la lipidomica siamo in grado di avere un quadro, a volte molto predittivo, dell’insulino resistenza. L’insulina è il catalizzatore dello step biochimico che va a produrre Acido Arachidonico AA nella cascata metabolica Omega_6. Quindi un quadro clinico ad altissimo inflammaging prevede valori ancora più alti del rapporto AA/EPA in condizioni di picchi di insulina e deficit di Omega_3. Soprattutto siamo in grado di misurare quando l’insulina è responsabile di un feedback nella produzione di AA.

La Dr.ssa Ferreri in diverse pubblicazioni ha individuato in alcune classi di Acidi Grassi monoinsaturi e nei rapporti tra AG saturi/monoinsaturi dei collegamenti molto forti con insulino resistenza, sindrome metabolica e obesità [68]. Questi dis-metabolismi possono essere utilizzati per verificare se una determinata terapia ha avuto efficacia oppure se in presenza di %AG saturi molto alta abbiamo bisogno di assunzioni alimentari di AG monoinsaturi come l’AG oleico (presente nella dieta mediterranea nell’olio di oliva) che tutti riconoscono oramai essere una delle chiavi della longevità. Se infatti tramite la lipidomica per motivi correlati a cattiva sintesi epatica o blocchi endogeni di alcuni step chiave troviamo una rigidità di membrana, data da un eccesso di AG saturi ed un deficit di AG monoinsaturi, è indispensabile il ripristino di concetti come fluidità ed elasticità. Questo è un punto chiave, perché solamente una membrana adeguatamente fluida consente il passaggio selettivo di acqua, minerali, metaboliti etc. Se, al contrario, fosse rigida (eccesso di AG saturi) si assisterebbe alla modificazione dell’interazione tra lipidi e proteine contenuti in essa, con l’inevitabile alterazione delle sue attività funzionali. Inoltre, verrebbe meno la funzione strutturale delle proteine di membrana, responsabili, come vedremo nel prossimo paragrafo, anche della permeabilità intestinale.

  • Dis-metabolismi a rischio oncologico

Sicuramente alcuni di questi marcatori lipidomici saranno uno dei fili conduttori nei prossimi anni per la prevenzione del rischio oncologico. Ci sono alcuni AG che vengono prodotti a livello endogeno come risposta ad un segnale metabolico che tende a richiedere fluidità di membrana. Questi marcatori endogeni non vengono assunti dall’alimentazione ma sono la risposta ad un feedback, quindi non possono essere confusi con diete errate e deficit nutrizionali. Il noto oncologo italiano Prof. Berrino dimostrò come attraverso la lipidomica di membrana è stato possibile selezionare una popolazione oncologica con il cancro al seno attraverso determinati rapporti tra diversi acidi grassi [69] e molto recentemente gruppi di ricerca spagnoli con la Dr.ssa Ferreri hanno sottolineato come la lipidomica sia uno strumento in grado di distinguere una popolazione oncologica [70-71. Rimane ancora molto da capire, soprattutto se questi segnali possono essere utilizzati nella prevenzione e come siano modulabili. La costruzione di database tra segnali oncologici da lipidomica e pannelli linfocitari che sto tenendo in collaborazione con diversi immunologi potrebbero essere utilizzati in futuro per verificare possibili correlazioni, anche con riattivazioni virali, ad oggi solo ipotizzabili.

Rimane comunque uno strumento di allarme: se questi segnali vi sono è bene fare controlli di routine annuali, in base anche alla familiarità, che andrebbero comunque effettuati a prescindere dagli esiti della lipidomica. 

 

In una prevenzione cardio metabolica la lipidomica eritrocitaria rimane un tassello imprescindibile. Insieme al Dr Fusco abbiamo nel 2023 avviato uno studio in vivo approvato dal comitato etico della Regione Veneto su 50 pazienti con diagnosi di Fibrillazione Atriale (FA). In questo protocollo siamo andati a vedere come una dieta anti-infiammatoria e l’utilizzo di proresolvine in terapia integrata riescano a modulare le recidive della patologia di ogni singolo paziente. Come strumento diagnostico, prima e dopo la terapia di 9 mesi, abbiamo utilizzato la Lipidomica eritrocitaria. Gli obiettivi dello studio sono stati pienamente raggiunti (% alta di risoluzione delle recidive in ogni paziente) e la Lipidomica ha evidenziato come gli stati infiammatori dopo 9 mesi sono stati completamente ristabiliti in tutti i pazienti. I risultati eclatanti sono in via di pubblicazione.

Un altro importantissimo impiego della Lipidomica è l’utilizzo di una integrazione di precisione mirata al singolo paziente. Effettuare una integrazione Omega_3 senza un controllo è sicuramente sbagliato e potrebbe avere inoltre un potenziale effetto negativo. Sia perché l’integrazione potrebbe essere insufficiente per raggiungere gli standard prefissati in letteratura, che è stato stabilito essere un Omega_3 Index vicino all’8% che è quella della popolazione giapponese dove appunto gli eventi cardio vascolari hanno una incidenza molto più bassa, ma sia soprattutto perché una integrazione troppo elevata (anche superiore a 3 g/die come riportato in diverse pubblicazioni) potrebbe essere nociva. Ci sono stati negli ultimi anni dei report ministeriali in cui si dava appunto notizia di come una integrazione Omega_3 potesse addirittura aumentare le recidive di FA. Questi report però fanno riferimento a studi osservazionali condotti con integrazioni molto elevate (> 3 o > 4g/die). Non tutti riconoscono il paradosso Redox degli Omega_3 [72]: sono molecole che hanno una accertata azione anti-infiammatoria, ma sono AG polinsaturi e ogni chimico è informato di come l’insaturazione aumenti la suscettibilità all’ossidazione in quanto è un ottimo sito di attacco per lo stress ossidativo (ROS). Quindi con Omega_3 Index molto elevati c’è la possibilità concreta che aumentiamo l’ossidazione delle nostre membrane, soprattutto se il nostro metabolismo di difesa endogeno antiossidante non funziona perfettamente. Quindi bisogna trovare quale è l’Omega_3 Index tale che ci dia una azione anti-infiammatoria e risolutiva, ma non porti ad un aumento dell’ossidazione delle nostre membrane. Questo Omega_3 Index guarda caso si trova nelle vicinanze dell’8%.

 

Come si effettua una integrazione mirata?

 

Si determina l’Omega_3 Index basale di ogni paziente e tramite dei modelli matematici pubblicati possiamo dare l’integrazione esatta di EPA+DHA per ottenere in 4-6 mesi un Omega_3 Index dell’8%, sia per una formulazione Omega_3 come Trigliceridi sia in Esteri Metilici che sono le formulazioni di Omega_3 più utilizzate in campo nutraceutico. Solo in questo modo utilizziamo l’integrazione anti-infiammatoria adeguata e non effettuiamo integrazioni fai da te prese su internet o in qualche palestra di fitness. Ovviamente in casi patologici diagnosticati potremmo avere un miglior beneficio con alti dosaggi di Omega_3, ma non parleremo più di longevità e soprattutto questi alti dosaggi devono essere supportati da intake nutrizionali adeguati (ad esempio polifenoli). 

In figura notate appunto un grafico dove sono stati inseriti i valori di Omega_3 Index e la misura dell’ossidazione di membrana i d-ROMs. Notate come appunto sia descritto il paradosso redox degli Omega_3: all’aumentare dell’insaturazione, all’aumentare dell’omega_3 index, potremmo avere un aumeno dei d-ROMs, superando i cut-off patologici.L’obiettivo del clinico è individuare quel’omega_3 index di membrana più alto possibile, senza portare scompensi all’ossidazione di membrana, come potete vedere dalle frecce. Per fare questo utilizziamo l’integrazione di precisione.

 

Riportiamo di seguito alcuni database costruiti negli anni con il biochimico Michele Spina e la nutrizionista oncologica Edy Virgili analizzati attraverso la lipidomica eritrocitaria:

Dal grafico si nota come il rapporto pro-infiammatorio AA/EPA estrapolato dalla Lipidomica eritrocitaria sia in grado di differenziare 4 tipologie di popolazioni e come un regime alimentare low carb è in grado di diminuire sensibilmente questo marcatore che risulta significativamente elevato nelle popolazioni patologiche.

 

[50] Omega-3 Fatty Acids in Inflammation and Autoimmune Diseases. Journal of the American College of Nutrition, Vol. 21, No. 6, 495–505 (2002).

[51] Pro-resolving lipid mediators are leads for resolution physiology. Nature 2014 Jun 5;510(7503):92-101.

[52] Cardioprotective mechanism of omega-3 polyunsaturated fatty acids. Journal of Cardiology 2016; 67(1):22-7.

[53] Carla Ferreri and Chryssostomos Chatgilialoglu. Role of fatty acid-based functional lipidomics in the development of molecular diagnostic tools. Expert Rev. Mol. Diagn. 2012; 12(7), 767–780.

[54] Bernabò N., Spina M. et al Graphene Oxide increases mammalian spermatozoa fertilizing ability by extracting cholesterol from their membranes and promoting capacitation. Scientific Reports | (2019) 9:8155.

[55] Bonfili L., Spina M. et al. Gut microbiota modulation in Alzheimer's disease: Focus on lipid metabolism. Clin Nutr. 2022 Mar;41(3):698-708.

[56] William S. Harris. Omega-3 Fatty Acids and Cardiovascular Disease: A Case for Omega-3 Index as a New Risk Factor. Pharmacol Res. 2007 March ; 55(3): 217–223.

 [57] Clemens von Schacky and William S. Harris. Cardiovascular risk and the omega-3 index. Journal of Cardiovascular Medicine 2007, 8 (suppl 1):S46–S49.

[58] Global survey of the omega-3 fatty acids, docosahexaenoic acid and eicosapentaenoic acid in the blood stream of healthy adults. Progress in Lipid Research 63 (2016) 132–152.

[59] Erythrocyte long-chain omega-3 fatty acid levels are inversely associated with mortality and with incident cardiovascular disease: The Framingham Heart Study. J Clin Lipidol. 2018 May-Jun;12(3):718-727.

[60] Using an erythrocyte fatty acid fingerprint to predict risk of all-cause mortality: the Framingham Offspring Cohort. Am J Clin Nutr 2021;00:1–8.

[61] Proportions of long-chain ω-3 fatty acids in erythrocyte membranes of Canadian adults: Results from the Canadian Health Measures Survey 2012–2015 Am J Clin Nutr 2021;113:993–1008.

[62] Assessing the Omega-3 Index in a population: Canada did it right Am J Clin Nutr 2021;113:779–780.

[63] Barry Sears and Camillo Ricordi. Anti-Inflammatory Nutrition as a Pharmacological Approach to Treat Obesity. Journal of Obesity Volume 2011.

[64] A rapid method for determining arachidonic: eicosapentaenoic acid ratios in whole blood lipids: correlation with erythrocyte membrane ratios and validation in a large Italian population of various ages and pathologies. Rizzo et al. Lipids in Health and Disease 2010, 9:7.

[65] Alessandro Ghezzo et al. Oxidative Stress and Erythrocyte Membrane Alterations in Children with Autism: Correlation with Clinical Features. Oxidative Stress & Membrane Alterations in 6utism. June 2013.

[66] Giuseppe Grosso et al. Omega-3 Fatty Acids and Depression: Scientific Evidence and Biological Mechanisms. Oxidative Medicine and Cellular Longevity. 2014.

[67] Diete Vegetariane: posizione SINU. 2016.

[68] Hexadecenoic Fatty Acid Isomers in Human Blood Lipids and Their Relevance for the Interpretation of Lipidomic Profiles. PLOS ONE April 5, 2016 1/14.

[69] Erythrocyte Membrane Fatty Acids and Subsequent Breast Cancer: a Prospective Italian Study. Journal of the National Cancer Institute, Vol. 93, No. 14, July 18, 2001

[70] Javier Amézaga et al. Altered Red Blood Cell Membrane Fatty Acid Profile in Cancer Patients. Nutrients 2018, 10, 1853

[71] Javier Amézaga et al. Altered Levels of Desaturation and Omega-6 Fatty Acids in Breast Cancer Patients’ Red Blood Cell Membranes. Metabolites 2020, 10, 469.

[72] The omega-3 fatty acid peroxidation paradox. Redox Report (1996) 2(1), 75-77.

 

Il futuro della prevenzione cardiovascolare: disbiosi e permeabilità intestinale

 

Negli ultimi 10 anni si sono fatti enormi passi avanti nel capire come moltissime patologie autoimmuni e non, siano innescate da un intestino che è alterato e rilascia in circolo molecole che danno dei segnali pro-infiammatori. La nuova era della medicina sarà sicuramente caratterizzata nella diagnosi e trattamento non farmacologico di alterazioni “non fisiologiche” quali disbiosi e permeabilità intestinale. Entriamo nell’affascinante mondo dell’intestino: il nostro secondo cervello.

Partiamo da un dato inconfutabile: i problemi intestinali stanno aumentando in maniera esponenziale. Solo in Italia la Sindrome del Colon Irritabile (IBS) colpisce circa 12 milioni di italiani, con prevalenza doppia nelle donne (8 milioni). Colpisce persone di tutte le età e anche i bambini. In gastroenterologia si è sempre cercato di dare una classificazione ai disturbi funzionali gastrointestinali: i criteri di Roma ora sono quelli più seguiti e hanno avuto diverse versioni fino ad arrivare a Roma III, in cui si dà una definizione di sindrome dell’intestino irritabile che comprende il 15-20 percento della popolazione. I dati epidemiologici ci dicono che queste percentuali sono arrivate fino al 60% della popolazione. La sindrome dell’intestino irritabile è una patologia multifattoriale, caratterizzata da disturbi intestinali, in assenza di alterazioni o lesioni a carico dell’intestino. Le cause sono, dunque, molteplici e nello stesso individuo non è riconoscibile un singolo fattore scatenante. Da un lato vi sono fattori psico-sociali, cognitivi ed emotivi: a livello intestinale c’è il cosiddetto “secondo cervello”, che è in continua comunicazione con il nostro “primo cervello”. Per questo motivo, molti degli eventi stressanti a livello psichico si riflettono sull’intestino e viceversa (problemi addominali che causano stress psicologici). Dall’altro lato ci sono fattori biologici, come l’aumentata sensibilità viscerale, alterazioni della motilità intestinale, alterazioni del microbiota (disbiosi), infiammazioni e infezioni intestinali.

 

Il microbiota intestinale è costituito da una serie di batteri che abitano nel tratto gastrointestinale producendo un ecosistema diversificato di circa 1014 microrganismi. Che cosa si intende per disbiosi? L’equilibrio tra i vari gruppi e sottogruppi di questi batteri è indispensabile per la salute. Quando quest’equilibrio viene a mancare si parla di disbiosi, con la conseguente proliferazione di germi patogeni. Un esempio è la candidosi: un'infezione micotica molto diffusa nel mondo femminile, causata dalla proliferazione incontrollata di lieviti del genere Candida, di cui la specie più nota e più spesso responsabile è la Candida albicans.

Un intestino disbiotico è un segnale di allarme per tantissime patologie che nel tempo porta a situazioni “non fisiologiche” quali la permeabilità intestinale o intestino gocciolante. L’ecosistema intestinale ha 4 livelli funzionali: il lume intestinale, lo strato di muco, la barriera epiteliale e lo strato sotto-mucoso dove troviamo il GALT (sistema immunitario intestinale). Uno strato di muco sano e ben strutturato ospiterà i batteri commensali e proteggerà le cellule della mucosa. Nella barriera epiteliale enterociti sani e con “giunzioni” ben serrate forniranno una perfetta barriera selettiva: permettere il passaggio di sostanze nutrienti dall'intestino al sistema circolatorio, mentre al contempo impedisce la penetrazione di agenti patogeni e altre sostanze dannose. Questo equilibrio delicato è fondamentale per la salute generale. Da un lato, l'assorbimento selettivo dei nutrienti è essenziale per garantire un apporto adeguato di sostanze nutritive necessarie per il corretto funzionamento dell'organismo. Dall'altro lato, la protezione dall'ingresso di agenti patogeni e tossine è cruciale per prevenire infezioni e infiammazioni che potrebbero compromettere la salute.

Quando queste giunzioni strette vengono compromesse da condizioni pro-infiammatorie e disbiotiche avverrà un movimento “inadeguato” di molecole biologicamente attive nel sistema circolatorio provocando una risposta immunitaria contro self. La relazione tra disbiosi, alterazione del microbioma e autoimmunità è molto stretta. Il Prof. Antonio Gasbarrini - responsabile dell’Unità di Medicina Interna e Gastroenterologia al Policlinico Gemelli di Roma - in una recente intervista dice: «Oggi molti vivono sotto stress e questa tensione continua modifica i segnali cerebrali all’intestino: la barriera intestinale diventa più permeabile e ciò consente il passaggio nel sangue di frammenti dei microbi della flora intestinale, che provocano una microinfiammazione generalizzata».

In una recente Review viene sottolineato come la Leacky Gut Syndrome - LGS (sindrome dell’intestino permeabile) sia riconducibile ad un aumento delle patologie autoimmuni [73] e recentemente è stata associata ad una correlazione sempre più stretta con le patologie cardio vascolari [74-75]. L’Università della Sapienza di Roma con il Prof. Violi in una eccellente Review uscita nel 2023 sulla prestigiosa rivista Nature Review Cardiology [76], descrive in modo dettagliato questa correlazione mettendola in relazione con i Lipopolisaccaridi.

I Lipopolisaccaridi (LPS), noti anche come endotossine, sono composti strutturali caratteristici della membrana esterna dei batteri Gram-negativi presenti nel nostro intestino. Tutto è in un ordine “fisiologico” quando il muco e le barriere intestinali funzionano perfettamente: ma in condizioni di permeabilità intestinale avviene una traslocazione delle LPS con una condizione definita come “endotossiemia metabolica”. Dopo la traslocazione le LPS possono essere o metabolizzate dal fegato ed escrete con le urine oppure, se l’escrezione biliare fallisce, le LPS arrivano al sistema circolatorio suscitando una risposta infiammatoria incontrollata. Nel sistema circolatorio, secondo il Prof. Violi, le LPS hanno la capacità di legarsi al colesterolo LDL che lo trasporterà poi lungo le arterie. Così, nel tempo, si possono creare condizioni che favoriscono l’aterosclerosi. Le protagoniste di questo circolo vizioso, che vede il colesterolo come un vero e proprio “cavallo di Troia” per il suo trasporto, sono appunto le LPS. Nella Review su Nature Cardiology, che invito tutti i professionisti sanitari a leggere, ci sono descritti tutti i meccanismi aterogeni e pro-infiammatori innescati dalle LPS nelle arterie: incremento di citochine pro-infiammatorie,  aumento dello stress ossidativo generando LDL-ossidate, destabilizzazione della placca aterosclerotica mediante la via dell’Acido Arachidonico Omega_6 con biosintesi di ormoni pro infiammatori che spostano i leucociti verso la lesione aterosclerotica della placca (come descritto nella sezione sull’inflammaging). Inoltre, le LPS sono decisive nel richiamo delle piastrine e aumento di trombosi nel vaso interessato che coinvolge non solo le cellule di rivestimento interno delle arterie, ovvero l’endotelio, ma anche i globuli bianchi e appunto le piastrine, rendendole più prone a formare trombi. In questa Review che considero “decisiva” nella descrizione multifattoriale dell’arteriosclerosi ci sono tutti quei fattori che abbiamo fin qui descritto: dis-lipidemia aterogena con produzione di LDL-ossidate, ruolo chiave dell’inflammaging e dello stress ossidativo, e infine l’influenza di un intestino permeabile e disbiosi sul rischio di infarto e ictus.

 

Rimane l’ultimo marker da individuare: come misurare l’endotossiemia?

Ad oggi non ci sono laboratori in grado di determinare le LPS in routine. Il costo è ancora molto alto e nei prossimi anni sarà il clinico a decidere per ogni soggetto, in base all’anamnesi, storia clinica e familiare, se fare degli screening di LPS opportuni. Con l’Università di Camerino (MC) nel 2024 abbiamo iniziato un percorso diagnostico riassunto in una Tesi di Laurea in Scienze Biologiche presente nel sito longevitainsalute.it del Dr Fusco.

In questo momento come screening iniziale è possibile effettuare in routine valutazioni di disbiosi intestinale (Disbiosi Test) e sovra crescita intestinale del piccolo intestino (SIBO) mediante una misura dell’espirato (Breath Test al Glucosio/Lattulosio) o individuare marker di permeabilità intestinale (zonulina sierica).

La nostra proposta sia per l’elevata robustezza analitica, sia perché utilizza matrici biologiche facilmente accessibili come le urine di prima mattina è di utilizzare come screening preventivo il Disbiosi Test [77-78]. In letteratura sono disponibili numerosi studi su questo analita ma nessuno aveva l’obiettivo di indicarne l’intervallo di riferimento. Per questo il test risultava poco rappresentativo ed utile. Recentemente un gruppo di ricerca dell’Università di Firenze ha pubblicato i limiti di riferimento in una popolazione non patologica che ora possono essere utilizzati dal clinico per individuare stati patologici di disbiosi in cui è importante intervenire con terapie mirate [79].

Molti laboratori italiani utilizzano questo test con molta approssimazione: in rete si vedono ancora immagini di limiti di riferimento vecchi di 30 anni legati a misure colorimetriche sicuramente poco accurate, ma soprattutto, poiché si vanno a misurare markers urinari che aumentano in condizioni di disbiosi, si deve tener conto della diluizione delle urine. Senza questo parametro il test diventa un terno al lotto. Nel 2023 insieme alla Biologa Nutrizionista Alleva R. e alla matematica Pignotti E., abbiamo effettuato uno studio statistico su 1056 test: un numero enorme che racchiude sicuramente una popolazion eterogenea di pazienti patologici e non. Con questo studio, in via di pubblicazione, abbiamo fatto delle proposte sull’aggiornamento di nuovi limiti di riferimento (soprattutto nell’individuazione di stati patologici gravi) in linea con quelli precedentemente pubblicati [79]. In questo studio statistico abbiamo trovato dei risultati davvero interessanti:

  1. l’influenza del genere - la donna ha valori superiori a quelli dell’uomo in linea con quanto si conosce già sul mondo femminile e le sue problematiche intestinali soprattutto sopra i 40 anni
  2. l’influenza dell’età - con l’età aumenta la percentuale di pazienti in disbiosi grave, in entrambi i sessi: per gli uomini fino a 60 anni i valori non cambiano per poi aumentare nella fascia 60-80 anni e crescere ulteriormente al di sopra degli 80 anni. Nelle donne invece l’incrementano è graduale in tutte le fasce di età.
  3. considerando la distribuzione nella fascia di età sopra i 60 anni non c’è più significatività tra i generi. È come se esistessero tre popolazioni differenti, fascia di età femminile under 60, fascia di età maschile under 60 e fascia di età maschile e femminile over 60. Quindi sopra i 60 anni l’uomo e la donna iniziano ad avere la stessa sensibilità alla disbiosi, cosa che invece non accade sotto i 60, con una sensibilità alla disbiosi molto maggiore per il mondo femminile.

Per concludere questo test è molto robusto e riproducibile per individuare rapidamente quei pazienti che hanno una fragilità intestinale e che possono andare incontro a stati cardio metabolici a rischio e necessitano di percorsi terapeutici differenti e prolungati per il ripristino dell’eubiosi intestinale. Quando queste terapie falliscono si andrà ad intervenire in un secondo livello con analisi più mirate: analisi approfondita del microbiota intestinale che si sta sviluppando negli ultimi anni, o individuazione di altri stati patologici come la SIBO, il responsabile principale della sintomatologia classica di gonfiore intestinale e meteorismo. Ovviamente devono essere sempre esclusi, in un secondo livello di esami, la malattia celiaca, la sensibilità al glutine non celiaca (Non Celiac Gluten Sensitivity, NCGS), l’allergia al grano immuno mediata e l’intolleranza al lattosio.

 

[73] Partners in Leaky Gut Syndrome: Intestinal Dysbiosis and Autoimmunity. Frontiers in Immunology. April 2021 | Volume 12 |

[74] Disbiosi intestinale ed infarto del miocardio: nuovi meccanismi di aterosclerosi. Giornale Italiano dell’Arteriosclerosi 2020; 11 (3): 27-41

[75] Implications for the role of lipopolysaccharide in the development of atherosclerosis. Trends in Cardiovascular Medicine. Volume 32, Issue 8, November 2022, Pages 525-533.

[76] Gut-derived low-grade endotoxaemia, atherothrombosis and cardiovascular disease. Nature Reviews Cardiology 20(1):1-14 January 2023 | volume 20

[77] Roager HM, Licht RT. Microbial tryptophan catabolites in health and disease. Nat Commun

2018;9:3294.16.

[78] Farowski F, Els G, Tsakmaklis A, et al. Assessment of urinary 3-indoxyl sulfate as marker for gut microbiota diversity and abundance of Clostridiales. Gut Microbes 2019;10:133-41.

[79] Risultati preliminari per la definizione dell’intervallo di riferimento per l’indoxyl solfato (indicano) nelle urine. biochimica clinica, 2022

 

 

Profili di rischio cardio metabolici: una mappatura completa del nostro benessere

 

La medicina attuale, basata sull’evidenza e sui dati clinici, si occupa di diagnosticare malattie e trattare pazienti con terapie e farmaci sviluppati sulla base di trial classici, che utilizzano campioni statisticamente significativi ma comunque dalla numerosità limitata. La medicina del futuro – e in parte del presente – potrebbe stravolgere completamente questo paradigma: non più cura, ma prevenzione, non più pazienti ma soggetti sani dei quali si valuta il rischio che possano incorrere in una malattia sulla base dei loro geni e delle interazioni con l’ambiente e stile di vita (epigenetica).

L’idea è quella di creare modelli predittivi sempre più precisi.

Su queste basi insieme al cardiologo Antonio Fusco, dopo anni di collaborazione in cui gli aspetti laboratoristici venivano interpretati e condivisi sulle evidenze cliniche ed anamnestiche del paziente mettendo a disposizione le rispettive competenze, abbiamo ideato un profilo di rischio cardio-metabolico che tenga in considerazione tutti quei parametri critici che abbiamo fin qui menzionato e che sono condivisi ed accettati dall’intera comunità scientifica.

Nella costruzione di un modello di calcolo predittivo di rischio Cardio Metabolico (CM), si è pensato quindi di distinguere cinque profili di rischio, che in maniera sinergica possono avviare dei processi aterogeni e degenerativi.

In ognuno dei profili di rischio sono stati considerati sia i markers canonici che ad oggi sono utilizzati con le analisi di routine, sia parametri integrativi proposti per una predittività maggiore, che richiedono analisi più specifiche.

 

1. Profilo Lipidico aterogeno

Markers proposti:

⮚ ApoB

⮚ sd-LDL (o LDL-ossidate in base al paziente)

⮚ Lipoproteina a

2. Profilo di infiammazione cellulare (inflammaging)

Markers proposti:

⮚ Rapporto AA/EPA e Omega_3 Index dalla lipidomica eritrocitaria

⮚ Acido Urico

⮚ Omocisteina

3. Profilo ossidativo

Marker proposto:

⮚ d-ROMs (perossidazione lipidica)

4. Profilo di insulino-resistenza

Markers proposti:

⮚ Rapporto Trigliceridi/HDL

⮚ Homa Index

5. Disbiosi Intestinale

Marker proposto:

⮚ Disbiosi Test (Markers urinari di disbiosi)

 

Ad ogni profilo di rischio verrà assegnato un punteggio di criticità secondo modelli matematici di incidenza in base all’esperienza accumulata nelle valutazioni in vivo di popolazioni patologiche. A questo punteggio si sommerà quello ottenuto sia dallo stile di vita (fumo ed ipertensione) che dalla familiarità più stretta con patologie cardio metaboliche, nella considerazione di come l’incidenza della genetica non debba superare il 25% del punteggio finale. Ormai la letteratura ha dimostrato che fattori quali l’alimentazione, l’attività motoria, il sonno, la circadianità, gli inquinanti ambientali, l’utilizzo cronico di farmaci così come lo stress psicosociale vissuto dalla persona, influenzano il nostro invecchiamento e possono decidere la nostra età biologica (epigenetica). Il valore risultante dalla sommatoria di tutti i punti assegnati ai vari parametri, va a individuare una specifica fascia di rischio cardio-metabolico “totale”, risultante cioè dalla correlazione di tutti i pannelli. Quindi, in realtà, il modello di calcolo non solo fornisce un indice generale del rischio - indicato dalla specifica fascia risultante - ma permette anche di individuare le eventuali criticità dei singoli pannelli, consentendo un intervento mirato a migliorare i soli profili alterati, sia con misure più blande (agendo per esempio sulla nutrizione e lo stile di vita, o ricorrendo all’integrazione) sia più marcate (prescrivendo terapie e farmaci, e misure più impattanti). Mediante questa mappatura un paziente avrà un quadro preciso del proprio stato di benessere ed il clinico uno strumento che gli dirà dove lavorare ed incidere finalmente per fare prevenzione.

In questi anni di collaborazione ci siamo sorpresi di vedere come pazienti in un quadro generale anamnestico critico (obesità, ipertensione, stress psicofisico elevato, astenia) avessero i classici markers di routine all’interno dei suoi limiti di riferimento: colesterolo-LDL sotto a 120, Glicemia sotto a 100 etc. Andando a fare una indagine più accurata ci siamo accorti che vicino ad una Glicemia di 100 si aveva però una Insulinemia altissima, e che i dati di Lipidomica evidenziavano come l’insulinemia spostasse tutta la cascata Omega_6 pro-infiammatoria verso destra. Sono questi i pazienti che la letteratura definisce “fat but fit”: il loro metabolismo di difesa è molto alto ma arriverà il tempo biologico in cui l’argine si romperà all’improvviso e tutti quei markers che prima erano in linea diventeranno “all’improvviso” patologici [80].

Abbiamo visto dis-lipidemie molto alte nei markers di routine che però non avevano caratteristiche aterogene e in assenza di fattori quali familiarità, ipertensione, patologie correlate necessitavano soltanto di essere monitorate o gestite non farmacologicamente.

 

Stiamo valutando come l’attività fisica da sola, abbinata ad una alimentazione anti infiammatoria, abbia la possibilità di modificare quei parametri critici.

Ad esempio l’attività fisica adattata è in grado di attivare meccanismi di azione nella protezione della cellula contro lo stress ossidativo. Tali meccanismi potrebbero riguardare l’interazione con il signalling cellulare e l’influenza sull’espressione genica, con conseguente modulazione di specifiche attività enzimatiche, capaci di guidare la risposta intracellulare contro lo stress ossidativo. Perché non utilizzare in maniera preventiva queste strategie? Valutandone l’efficacia attraverso un panel completo di esami che devono essere valutati insieme e mai singolarmente.

 

Un aspetto in particolare è al centro dei nostri modelli: valutare l’efficienza della capacità di ogni paziente di controllare i processi infiammatori e di combattere lo stress ossidativo implicato anche nell’insulino resistenza, due aspetti considerati fondamentali nel condizionare la longevità.

 

Siamo noi che decidiamo per il 70% il destino della nostra età biologica e dobbiamo sfruttare tutte le opportunità che la scienza oggi ci offre.

[80] Fat but fit? Eur Heart J. 2020 Apr 14;41(15):1463-1465.

 

Di seguito un esempio di un referto cardio-metabolico

 

Tutto il materiale laboratoristico è stato scritto in collaborazione con il biochimico Dr Spina Michele e la versione integrale può essere scaricata in versione PDF con il QR-Code presente nel libro BATTITI DI VERITA'.

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